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Horror che passione: un genere dimenticato?

In un’epoca dove i Call of Duty, i Battlefield e, in generale, i giochi incentrati sul multiplayer sembrano monopolizzare tutta la scena videoludica, io (e fortunatamente anche altri) ci facciamo una sola domanda: che fine hanno fatto i survival horror?

È indubbiamente vero che il genere non stia vivendo un periodo di prosperità, anzi. C’è da dire che tra l’altro giochi di questo tipo sono solitamente evitati dalle masse, poiché contengono contenuti spesso violenti, disturbanti, che potrebbero urtare la sensibilità degli utenti. Ma cos’è che ci fa davvero Paura? La paura è un’emozione dominata dall’istinto (cioè dall’impulso) che ha come obiettivo la sopravvivenza del soggetto ad una suffragata situazione di pericolo; il termine paura viene quindi utilizzato per esprimere sia un’emozione attuale, sia un’emozione prevista nel futuro, oppure una condizione pervasiva ed imprevista, o un semplice stato di preoccupazione e di incertezza.

In particolare, il termine inglese survival horror (letteralmente “horror di sopravvivenza”) definisce dunque una categoria di videogiochi basati sulla sopravvivenza del personaggio, giocati in un’atmosfera di paura e suspense. In questo editoriale vi illustrerò alcuni giochi di questo tipo che ho adorato e che mi sono piaciuti. Come stavamo dicendo, le software house tendono a non puntare su titoli di questo tipo, appunto perché spesso ignorati dalla stragrande maggioranza dei giocatori. In seconda analisi poi, spesso esse tendono a rendere troppo action un titolo (sempre per venire incontro alle masse), che perde dunque le sue caratteristiche horror per appoggiarsi ad un approccio decisamente più user-friendly e accessibile a tutti. Esempi lampanti sono proprio i capostipiti del genere, vere pietre miliari quali Silent Hill, Resident Evil e Alone In The Dark (saghe purtroppo cadute davvero in basso rispetto ai primi stupendi capitoli); non posso non citare, da questo punto di vista, un gioco che mi ha colpito tantissimo, anche a livello di trama, vale a dire Dead Space.

Lo spazio sconfinato, innaturalmente silenzioso, oscuro. Della sua capacità di inquietare molti ne sono accorti, e la Visceral Games ne ha fatto un setting perfetto per il suo titolo.

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“Tutto è perduto”, uno dei tanti messaggi lasciati dagli ultimi sopravvissuti in un barlume di lucidità.

Uscito nel 2008, il gioco si ambienta in un possibile futuro prossimo a bordo della USG Hishimura, una nave spaziale di classe Planet Cracker, cioè adibita ad uno sfruttamento intensivo delle risorse dei pianeti. A un certo punto, con la nave viene perso ogni contatto, e l’ingegnere Isaac Clarke (che prende curiosamente il suo nome da Isaac Asimov e Artur C. Clarke, autori di molti racconti fantascientifici) viene inviato lì insieme ad una squadra per investigare su cosa sia esattamente successo nella nave. Da li, l’inizio di un’epopea, e la sensazione che qualcosa sia andato terribilmente storto: tutto l’equipaggio è stato tramutato in orribili zombie da una specie aliena denominata Necromorfi, capaci di rianimare la carne morta. Una premessa che potrebbe sembrare banale, ma che ci immette in un crescendo di tensione e adrenalina: Isaac non è né un combattente né un eroe, è un semplice ingegnere, e ce lo farà capire in tutte le situazioni. Meritevole di lode il design delle creature con cui avremo a che fare, davvero ben curato, con delle aberrazzioni che sembrano uscite direttamente dal peggiore degli incubi. Anche alle difficoltà più basse inoltre, le munizioni sono poche e i medikit scarseggiano, e questo aumenta in maniera consistente la tensione. Dead Space ha il pregio di tenerci costantemente all’erta, dall’inizio alla fine: non sapremo mai quando avverrà il prossimo attacco e saremo sempre sul chi va là. Molte sezioni della stazione sono inoltre completamente al buio e la torcia in nostra dotazione fornisce ben poca illuminazione. Degne di nota anche le sezioni prive di gravità, dove oltre ai necromorfi che vogliono smembrarci nei modi più disparati possibili, dovremo tener conto anche del timer di ossigeno che scende inesorabilmente verso lo zero.

Ciò che mi ha colpito molto di Dead Space poi è l’ambientazione, malsana, putrida. All’interno della nave percepiremo un costante senso di desolazione, decorato con pozze di sangue e cadaveri ovunque. Un plauso infine, va soprattutto al sonoro, ben orchestrato nei momenti adrenalinici, ma soprattutto inquietante nei momenti apparentemente calmi: oggetti che cadono, scricchiolano, gorgoglii, urla e ringhi lontani riescono a farci percepire una sensazione di pericolo perpetuo. Resta un senso di amaro per la deriva action che il brand ha avuto nel corso dei sequel (soprattutto nel terzo capitolo), ma sono fiducioso che per il quarto capitolo gli autori possano riportare la saga ai suoi antichi fasti.

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Gli Stalker, introdotti in Dead Space 2, sono probabilmente tra i necromorfi più spaventosi, sopratutto per via dei versi gutturali che producono.

Un altro titolo che ho apprezzato tantissimo è stato Alien: Isolation, considerato da molti come la vera trasposizione di uno dei franchise cinematografici più apprezzati di sempre (dopo il mezzo flop di Alien: Colonial Marines). Narrativamente a cavallo tra il primo e il secondo film, impersoneremo la bella Amanda Ripley, figlia della ben più nota Ellen Ripley (interpretata sul grande schermo dall’attrice Sigourney Weaver), e dovremo esplorare la Sevastapol, alla ricerca della scatola Nera della Nostromo (nave dove si svolgono gli eventi del primo film). Corridoi lunghi e asettici solitamente poco illuminati, porte in continua avaria e condotti d’areazione rappresentano l’ambientazione perfetta per un survival horror con gli attributi: le risorse sono difficili da reperire, le armi per difendersi sono poche, ed in generale, avremo la sensazione di essere costantemente braccati da un essere spietato molto più veloce di noi, che ci dà la caccia e ci fiuta. Un encomio va fatto a questo punto ai ragazzi di The Creative Assembly, che per l’Alien hanno progettato un’intelligenza artificiale davvero ben congegnata, soprattutto alle difficoltà più alte. Ingannarlo non risulta un compito semplice, e dovremmo sfruttare elementi ambientali o diversivi (come fumogeni e razzi di segnalazione, creabili tramite un intuitivo menu di crafting).

Aggiungete il fatto che l’Alien è invulnerabile e può essere solo temporaneamente spaventato dal lanciafiamme (le cui munizioni sono davvero scarse e di difficile reperibilità), e avrete ottenuto il cocktail perfetto per un gioco ansiogeno al punto giusto. Perlomeno in Dead Space ci potevamo difendere dai nostri assalitori, in Alien Isolation invece il senso di angoscia è ancora più accentuato in questo senso. Il gioco si può considerare dunque quasi come uno stealth, visto che ci si dovrà muovere con circospezione, fondamentalmente. Correre all’impazzata per gli angusti corridoi della Sevastapol infatti si rivela quasi sempre una strategia poco felice, visto che l’Alien ha dei sensi sviluppatissimi ed è attirato anche dai benché minimi rumori . Molto spesso mi è capitato di prendere diversi infarti per sedie e oggetti fatti cadere dall’alieno, nel silenzio siderale della stazione: i comportamenti dello xenomorfo sono del tutto imprevedibili, ed esso potrebbe sbucare da un momento all’altro da un condotto di areazione senza alcun preavviso. Anche i percorsi che compie sembrano essere del tutto casuali, e affrontarlo o provare a fuggire una volta scoperti porta a un Game-Over sicuro, cosi come sottolineato da uno dei consigli che ci viene dato nella schermata di caricamento:

“Non provare a seminare l’alieno. Non ci riuscirai.”

Il senso di oppressione è ancor più sottolineato dal fatto che potremo nasconderci sotto dei lettini o all’interno di armadietti (caratteristica presa a piene mani da Amnesia e Outlast). Trattenere il respiro mentre lo xenomorfo ci passa davanti è una sensazione davvero terrificante, che ci immedesima ancora di più nell’impressione di costante inadeguatezza dinanzi agli eventi che ci circondano.

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Nascosti in silenzio sotto a un tavolino, mentre la bestia si allontana… o si avvicina.

Lodevole anche The Evil Within, ultima creazione di Shinji Mikami (il creatore di Resident Evil), che si configura come una sorta di tributo agli storici survival horror che ho citato all’inizio dell’editoriale, e che personalmente ho apprezzato molto (in merito c’è un articolo sui suoi boss nel nostro sito). Per quanto riguarda le etichette indipendenti, impossibile poi non citare i vari Penumbra, Amnesia, e Outlast: i primi 2 sono opera della software-house svedese Frictional Games (che ultimamente ha rilasciato anche Soma, interessante progetto indie), mentre Outlast (di cui è stato annunciato recentemente un sequel) è opera dei talentuosi ragazzi della Red Barrels. La cosa che accumuna i 3 titoli, è il fatto che il protagonista sia pressoché sprovvisto di armi, e quindi completamente indifeso di fronte alle minacce che gli si porranno davanti. Un altro cliché abbastanza comune del genere in questi giochi, è che si comincia a giocare senza avere la più pallida idea di cosa ci sia successo . Così in Penumbra: Black Plague ci risvegliamo intontiti e chiusi in una stanza, in Amnesia presso un castello di epoca medievale, e in Outlast alla ricerca di verità celate in un manicomio abbandonato.

Amnesia, oltre ad avere un plot palesemente ispirato ai racconti di Allan Poe e in generale ai romanzi della letteratura lovecraftiana, ha avuto il merito poi di aver introdotto un indicatore di sanità mentale del protagonista, che scende quando stiamo per troppo tempo al buio (ma rimanere con la luce accesa ci rende di contro facilmente individuabili dai nemici).

Outlast l’ho particolarmente amato, mi sono sempre piaciuti i luoghi abbandonati come settings narrativi: in particolare il senso di claustrofobia, di essere persi in un luogo che non conosciamo, di voler tornare a casa il prima possibile. I nemici di Outlast sono dei pazzi modificati da esperimenti inumani, mossi da un cieco furore e preda di costanti allucinazioni. Ricordo il pezzo di uno dei primi livelli, dove bisognava riattivare la corrente con una leva; mentre camminavo nell’oscurità di uno scantinato allagato, con solo la telecamera a infrarossi a farmi da piccolo spiraglio di luce, all’improvviso, odo una voce nel buio pesto: “C’è qualcuno lì?”. Brividi, tensione, ansia. Di soppiatto, mentre maledico il rumore che fanno i miei passi nell’acqua, mi introduco in una stanza, chiudo delicatamente la porta, e mi nascondo sotto un lettino. Sento dei passi. Poi qualcuno comincia a battere alla porta. Anzi, a sfondarla. Da sotto il letto, immobile e con il personaggio che comincia ad ansimare nervosamente (davvero curatissimo l’audio in Outlast), osservo la terribile scena che si sta presentando davanti ai miei occhi, con questo energumeno dotato di clava (con cui ha appena sfondato la porta), che entra nello stanza, e si ferma esattamente di fronte al lettino. Altri momenti di tensione allo stato puro. A un certo punto, dopo alcuni secondi che mi sono sembrati ore, l’insano individuo si gira e se ne torna indietro da dove era venuto, pronunciando con un tono sadico e distorto: “Non c’è nessun brutto gattaccio. Se n’è volato in cielo”. Tiro un sospiro di sollievo, ma credo che non mi muoverò più da lì sotto.

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Cucù!

Una situazione davvero ben pensata e che ci fa capire quanto impegno hanno messo gli sviluppatori nel caratterizzare gli ambienti, le atmosfere e l’audio (anche se ancora mi chiedo come possa una persona sana di mente entrare in un manicomio abbandonato di notte non portando con sé nemmeno un’arma da taglio o un qualunque oggetto per difendersi). Meritano una piccola menzione anche i vari Slenderman, Jeff The Killer, Five Nights At Freddy’s, basati perlopiù su jump-scares (i famosi “balzi dalla sedia”) e creepypasta popolari del web. Impossibilità di difendersi, scarse risorse, ambienti malsani e claustrofobici, nemici terrificanti, sono, in conclusione, tutti ingredienti validi per un buon survival horror, un genere che purtroppo ha avuto ben poche luci e molte ombre (in senso negativo, scusate il gioco di parole ndr) negli ultimi anni. Considerato il fatto che le grandi software house non siano interessate più di tanto a giochi di questo tipo , dovremmo solo affidarci alle produzioni indie? Quali sono stati i giochi più spaventosi che avete giocato, e infine, siete d’accordo con quelli che ho citato?

Fatecelo sapere nei commenti.

Davide Di Cecca
Videogiocatore incallito dalla tenera età di 5 anni, un giorno ha scoperto che esistevano altri giochi oltre ad Halo. Si batte per valorizzare il gaming in tutte le sue forme, e sogna un giorno di diventare un giornalista nell’ambito videoludico.

Davide Di Cecca
Videogiocatore incallito dalla tenera età di 5 anni, un giorno ha scoperto che esistevano altri giochi oltre ad Halo. Si batte per valorizzare il gaming in tutte le sue forme, e sogna un giorno di diventare un giornalista nell'ambito videoludico.

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